Sandra

 

Con il passare dei giorni c’erano sempre meno vicini, anzi, per la verità non era rimasto proprio nessuno. Le giornate si stavano accorciando e c’era più silenzio. A volte il silenzio era tale che un semplice fruscio di foglie sembrava una bufera e quando un’auto percorreva il vialetto sembrava che dovesse sfondare il muro e andarsi a schiantare contro il letto. Per fortuna da qualche tempo le distanze avevano smesso di ingannarmi, e se sentivo una goccia cadere a terra in corridoio sapevo che in realtà il rumore proveniva dalla veranda. Fu in uno di quei pomeriggi che avvertii il primo calcio del bambino. Se avessi saputo dove vivevano Fred e Karin li avrei raggiunti di corsa per raccontarglielo. Sicuramente non si sarebbero seccati se mi fossi presentata all’improvviso a casa loro. Scacciai la tentazione di chiamare Santi, che si sarebbe attaccato in tutti i modi al calcio di nostro figlio per avere una scusa per venirmi a trovare, e i miei genitori, che mi avrebbero fatto un predicozzo sulla mia solitudine.

Mi sembrava di ricordare che i norvegesi avessero parlato di Tosalet, ma a Tosalet le ville occupavano un’area vastissima coperta di pini e palme, praticamente un bosco, e sarebbe stato come cercare un ago in un pagliaio. E così rimasi sdraiata con le mani sulla nuca, aspettando il prossimo calcio. Finché a un certo punto non riuscii più ad aspettare, finché non sentii che dovevo condividere con qualcuno quel momento, finché non si annuvolò minacciando di piovere e, pensando che avevo ancora tutto il pomeriggio davanti, non potei più resistere all’impulso di agire. Non mi restava altro da fare che cercare la casa dei norvegesi. E non so perché, ma mentre salivo sul motorino in quel pomeriggio grigio mi resi conto che non mi avevano mai invitato a casa loro. Non mi avevano mai dato l’indirizzo o il numero di telefono. Se fossi riuscita a trovarli si sarebbero sorpresi parecchio vedendomi arrivare e io mi sarei sentita a disagio, come se avessi oltrepassato una linea invisibile tracciata solo da loro.

A ogni modo non mi dispiaceva fare un bel giro per le vie tranquille di Tosalet. L’odore di terra e fiori bagnati, anche prima che iniziasse a piovere, si mischiava all’umidità del mare. Mi si aprivano i polmoni, respiravo bene come non mai, e questa era una buona cosa per il bambino. Dopo tutto ero la sua porta e le sue finestre sul mondo, e quello che gli arrivava era ben poco. Ossigeno, a volte musica, i battiti del mio cuore e forse anche la mia tristezza e la mia allegria. Gli sarebbero arrivati senza che lui lo sapesse e se li sarebbe portati dietro per tutta la vita senza rendersene conto. Era per questo che le persone avevano un carattere ben riconoscibile fin dalla culla, e adesso io mi chiedevo in che modo stessi influenzando la personalità di mio figlio.

Andavo a velocità minima, soffermandomi sulle case che potevano addirsi ai miei nuovi amici e sui nomi che leggevo sulle cassette della posta. Il secondo metodo era più affidabile: cosa pensavo di trovare, una fattoria norvegese? In fatto di case le persone possono rivelarsi davvero sorprendenti. Ci sono quelli che escono tutti agghindati e poi hanno la casa ridotta uno schifo, o viceversa. I miei genitori per esempio erano un disastro, folli e impulsivi, eppure tenevano perfettamente in ordine le carte, le fatture e anche la casa, dove ogni cosa era al suo posto e se si fulminava una lampadina veniva subito sostituita. Per questo non sono mai stata sicura che una casa sia lo specchio fedele di chi vi abita.

Mi addentrai ancora di più nella zona residenziale, parcheggiai in una piazzola, legai il motorino e quando alzai lo sguardo vidi di fronte a me un ristorante chiuso. Peccato, mi avrebbero potuto dare qualche indicazione. Qua e là iniziavano a cadere grosse gocce d’acqua, ma continuai a camminare. Se riuscivo a non pensare, il momento era perfetto. Quasi tutte le ville erano circondate da mura di pietra e da cancelli di ferro di un solo pezzo, come se quelle persone non volessero essere nemmeno viste, come se lì dentro avessero tutto ciò che un essere umano può desiderare. Adesso pioveva davvero, e all’improvviso l’acqua iniziò a venire giù a secchiate. Ero bagnata fradicia e non sapevo dove andare: non c’erano posti dove rifugiarsi, nessuna grondaia o un tetto sotto cui trovare riparo.

Finalmente una donna mi venne in aiuto: stava aprendo la serranda del suo garage con il telecomando e mi chiese se volevo entrare e aspettare che spiovesse. Non me lo feci ripetere due volte. Entrai nel garage insieme all’auto con i sandali grondanti e da lì uscii nel suo giardino. Qui c’era un pergolato, e dissi alla signora, straniera come Karin, che mi sarei seduta lì sotto per un po’.

Prima che potessi spiegarglielo aveva già capito che mi ero persa. Le spiegai che stavo cercando la casa di una coppia di norvegesi di nome Fredrik e Karin. Dedussi che quei due nomi non le dicevano niente perché andò verso la porta d’ingresso senza proferire parola. Si fermò per qualche istante fra le due colonne doriche che la fiancheggiavano, mentre io cercavo di asciugarmi come potevo e mi domandavo quanto tempo avrei dovuto passare nel pianeta alieno di quella signora, non certo dotata di un gran gusto ma sicuramente di molti soldi. In quel caso abitazione e abitante sembravano coincidere perfettamente.

Dopo una decina di minuti passati a fantasticare su cosa avrei fatto io con quel terreno e come avrei tentato di salvare la facciata della casa, la signora tornò con un ombrello, seguita dallo strepito di un nugolo di cagnolini. Adesso sorrideva e aveva con sé un asciugamano. Me lo diede perché mi asciugassi, ma io non lo usai perché era un telo da mare ed era evidente che se l’erano messo addosso in molti. Mi limitai a tenerlo in mano mentre la signora mi diceva che aveva telefonato a Karin e che Fredrik stava venendo a prendermi.

«La povera Karin ha un attacco di artrosi», disse. «I cambiamenti di clima la distruggono.»

I cagnolini mi arrivavano alle caviglie, abbaiavano e mi saltavano intorno. In mezzo a quel frastuono le dissi che era stata proprio una gran fortuna che lei conoscesse i miei amici.

«Qui ci conosciamo tutti», rispose. «Vivono più o meno a trecento metri da qui.»

Abbassò lo sguardo verso la mia pancia e vi indugiò un po’ ma non fece commenti, forse per evitare figuracce in caso di un’impressione sbagliata. In quei giorni io portavo ancora vestiti molto estivi con l’ombelico scoperto, una maglietta corta e dei pantaloni a vita bassa. I piedi fradici mi sciaguattavano nei sandali.

«Non ti fa bene prendere freddo. Dovresti asciugarti.»

I cagnolini si scrollavano la pioggia dal pelo perfettamente tosato.

«Non si preoccupi», risposi restituendole l’asciugamano.

«Conosci i Christensen da molto tempo?»

«Li ho conosciuti un paio di giorni fa in spiaggia, ci troviamo bene insieme.»

La signora appoggiò l’ombrello chiuso sulla panca di legno che c’era sotto il pergolato. Aveva un vestito bianco che le arrivava alle caviglie e lasciava intravedere le mutande. Sebbene avesse più o meno l’età di Karin, sembrava agile e poco consapevole dei suoi anni. Mi sorrise pensierosa.

Quando sentimmo il clacson di Fred, la giovane anziana, i cani e io uscimmo dal cancello. Come avevo immaginato Fred mi guardò stupito. Mi chiese del motorino e se ero venuta da sola, e io gli risposi come si fa sempre in questi casi: che passavo di lì, che ricordavo di averli sentiti dire che vivevano a Tosalet e che... Quando mi stancai di dare spiegazioni rimasi in silenzio: in fondo non ce n’era bisogno. Vicino all’ingresso c’era un bellissimo mosaico che componeva il numero 50. La giovane anziana estrasse un pacchetto da una delle tasche del vestito e lo diede a Fred.

«Grazie, Alice», disse lui. «Molte grazie.»

Salii in macchina cercando di non bagnare la tappezzeria.

«Karin sta preparando il tè, ci metteremo pochissimo ad arrivare», esordì con un’allegria che non doveva dipendere solo dalla mia presenza, mentre infilava una stradina dopo l’altra in cui il fuoristrada riusciva a passare per miracolo e a uscirne senza graffi.

Superata l’entrata con la scritta Villa Sol, scendemmo in garage per poi salire da una scala che portava all’ingresso.

Karin era in cucina. Un locale di circa trenta metri quadri con mobili logori e antichi per davvero, non come le imitazioni di mia sorella. Non mi chiese nulla, fu solo contenta di vedermi. Camminava con più difficoltà degli altri giorni e la sofferenza le aveva disegnato due o tre nuove rughe sul viso.

«Oggi mi fa male tutto», disse.

«Sì, quella signora mi ha detto della tua artrosi.»

«Ah! Alice. Lei è molto fortunata, ha i geni di un toro. Anche se sembra impossibile ha un anno più di me.»

A quel punto Fred le allungò il pacchetto e a Karin si illuminarono gli occhi.

«Torno subito», disse.

Tornò poco dopo con una vestaglia di seta rosa in mano e mi costrinse a togliermi i vestiti bagnati e a indossarla nel bagnetto che c’era accanto alle scale. Obbligò Fred ad andare in garage a cercarmi un paio di sandali di gomma. Villa Sol mi piaceva più della casa di Alice. Era meno pretenziosa e più vissuta. C’erano più fiori e l’architettura era quella tipica della zona, con la facciata color ocra, il tetto con le tegole, le imposte rosse con intarsi verde scuro. Ci sedemmo in una saletta dove dovevano passare la maggior parte del loro tempo, perché odorava del profumo di Karin. Lì c’era un camino, si vedeva il giardino e, in un angolo, c’era una poltrona che mi piacque subito e dove mi sedetti. Fred mi avvicinò uno sgabellino perché potessi poggiarci i piedi. Le tazze avevano il bordo dorato, come i piatti e la teiera.

«Tra quindici giorni al massimo inizieremo ad accendere il camino di sera. Questa zona è molto umida.»

«Mi dispiace essere piombata qui all’improvviso.»

«Non importa, cara», rispose Karin. «Voglio mostrarti una cosa. Guarda, sto facendo un golfino per il bambino.»

Fred prese un giornale e io mi avvicinai di più a Karin. Non riuscivo a credere che avessero pensato a me fino a quel punto.

«Oggi ha scalciato una volta, anzi due.»

Karin mi sorrise fra le rughe profonde che facevano sembrare la sua espressione un po’ diabolica, come se stesse dicendo: “Devi essere proprio sola se racconti qualcosa di così intimo e importante a una perfetta sconosciuta”. Ma poiché non disse niente, non potei precisare che se lo raccontavo a una sconosciuta era perché volevo che fosse proprio così, perché volevo raccontarlo ma non condividerlo.

L’artrosi le impediva di andare avanti, così lasciò da una parte ferri e gomitolo, si mise le mani in grembo e le unì.

«Odio l’inverno», disse. «Quando eravamo giovani mi piaceva, la neve splendente, il freddo gelido sulla faccia. Allora l’inverno non mi pesava, potevo fare tutto, ora invece ho bisogno del sole e del suo calore e i giorni come questo mi intristiscono e mi danno da pensare. E sai qual è peggio? Pensare. Se pensi alle cose belle ti viene nostalgia, se pensi a quelle brutte ti amareggi. Quando fa molto caldo e sono in spiaggia non penso a niente.»

A me succedeva più o meno lo stesso: in spiaggia, con il sole che mi abbrustoliva il cervello, mi sentivo al settimo cielo.

«Non preoccuparti di niente, tesoro, davanti a te hai molto tempo per dimenticare. Sei così giovane...»

Restammo entrambe a guardare il giardino senza dire niente, pensando e ascoltando le gocce che cadevano dal tetto e dagli alberi. Chiusi gli occhi e mi addormentai, non per il sonno ma perché era una sensazione piacevole. Dimenticare cosa? Santi? Non mi andava. Anche se non volevo sposarmi o crescere un figlio con lui, gli volevo bene. Aprii gli occhi e mi raddrizzai sulla poltrona provando un forte senso di colpa perché vicino a Karin stavo molto meglio di quanto mi fossi mai sentita vicino a mia madre, perché preferivo avere Fred che sfogliava le pagine del giornale sotto il mio stesso tetto, piuttosto che mio padre. Mi mettevano tranquillità. Bevvi il tè ormai freddo che restava nella tazza. Karin mi disse che se volevo poteva insegnarmi a fare qualche vestitino per il bambino.

L’idea di imparare qualcosa di utile, di usare le mani, mi entusiasmò: in quella quiete, in quei giorni in cui non succedeva niente, sarebbe stato piacevole anche lavorare l’argilla. Non mi feci pregare quando alle otto Fred annunciò che era ora di cena e che speravano mi unissi a loro. Apparecchiai mentre Fred preparava un’insalata leggera. Lui bevve una birra, noi due dell’acqua. Dopo aver messo a posto le tovagliette, probabilmente ricamate da Karin, e i piatti con lo stemma sul fondo, Fred prese un mazzo di carte per fare una partita a poker. Avrei dovuto approfittare di quel momento per andarmene, invece accettai di allontanarmi un altro po’ dal mio mondo per entrare nella dimensione di Fred e Karin. D’altra parte era meglio iniziare a sapere che cosa mi aspettava più avanti, quando non ci si può concedere il lusso di annoiarsi.

Karin mischiava le carte con le sue dita deformate e lanciava occhiate penetranti al marito. A detta sua, Fred aveva vinto vari campionati di poker. Era molto bravo, il migliore, ma le coppe erano rimaste nella fattoria in Norvegia, insieme a quelle che aveva vinto con il tiro a segno. Fred cercava di non cambiare espressione nonostante le lodi, non alzava lo sguardo dalle carte e si lasciava adulare. Quando alla fine ci fissò, gli occhi gli brillavano come quelli di un bambino.

Interrompemmo la partita solo perché suonarono alla porta.

Erano due ragazzi. Il primo non era né alto né basso, piuttosto grosso, con i capelli rasati e una leggera peluria che gli incorniciava la mascella. Una maglietta nera senza maniche gli stringeva il petto largo. Lo chiamarono Martín. Mi guardò incuriosito e Fred lo prese per un braccio e lo portò in una saletta accanto al soggiorno. L’altro rimase sulla porta. Era magrolino e i suoi capelli, in confronto a quelli di Martín, potevano definirsi lunghi e di un castano chiaro.

«Sei amica di Fred e Karin?» sussurrò tendendomi la mano. «Sono Alberto.»

Gliela strinsi, e il contatto fu un po’ troppo intenso. Aveva la mano caldissima... o era la mia? La ritrassi come se bruciasse e sgattaiolai in cucina. Non volevo che continuasse a guardarmi con quei suoi occhi scivolosi, che si muovevano come da sotto una patina d’olio. Impossibile sapere a cosa stesse pensando. La sorpresa dell’altro nel vedermi era stata evidente, mentre lui non lasciava trasparire niente, era come un’anguilla.

Quando uscii dalla cucina, non c’era più: se ne era andato con Martín.

 

I norvegesi non vollero che tornassi a casa. In fondo, non c’era nessuno che mi aspettasse. Avevamo fatto tardi giocando a carte e la pioggia non accennava a smettere. Fred avrebbe dovuto accompagnarmi in macchina fino al motorino, e dopo avrei dovuto affrontare tutte quelle curve orribili nel bel mezzo di un acquazzone. E per cosa poi? Solo per dormire nel mio letto?

«Abbiamo un sacco di stanze», disse Karin.

Fred non diceva nulla e questo mi faceva esitare, finché la moglie non gli diede una spinta.

«Dille qualcosa», sibilò. «Non startene lì imbambolato.»

«Se resti qui domani possiamo andare in spiaggia insieme, o se preferisci potresti fare un bagno in piscina», disse lui.

Mi feci pregare un altro paio di minuti e alla fine restai. Rimanemmo in piedi un altro po’ e poi mi portarono in una stanza molto carina con una libreria bianca e una carta da parati a fiori azzurri.

«L’ha fatta Fred», disse Karin indicando la libreria.

Mi chiesi se i miei genitori non sarebbero stati più felici se solo mia madre avesse avuto per mio padre la stessa ammirazione che Karin dimostrava nei confronti di suo marito. Ma doveva trattarsi di una cosa genetica, perché neanche io ero riuscita ad ammirare Santi in quel modo. Karin mi lasciò una camicia da notte di seta color avorio con un taglio fantastico. Sembrava un abito da sera. Doveva risalire all’epoca in cui lei era stata alta e magra e le stoffe duravano una vita. Mi stava a meraviglia, tanto che quasi mi dispiaceva spiegazzarla.

Di solito dormivo con una vecchia maglietta larga e un paio di slip: non avevo bisogno d’altro. Non avevo mai capito che senso avesse infilarsi tra le lenzuola vestiti di tutto punto... fino a quel momento. La seta mi si avvolgeva addosso e mi aderiva al seno facendomi sentire una principessa. Forse mio figlio, per nascere con una grande autostima e andare avanti sicuro nella sua vita futura, aveva bisogno che sua madre dormisse con camicie da notte da vamp.

Sebbene sentissi la mancanza di alcune vecchie riviste di mia sorella e volessi sapere cosa fosse successo alla principessa Ira von Fürstenberg, mi venne subito sonno. Era impossibile resistere a quel letto, anche se ebbi il tempo di chiedermi che cosa ci facessi in quella stanza, in quel letto, in mezzo a tanti fiori azzurri e dentro quella camicia da notte.

 

Come tutte le notti da due mesi a quella parte, dovevo alzarmi per fare pipì minimo una o due volte. Mi svegliai un po’ confusa ricordando vagamente che c’era un bagno in corridoio. Mentre lo cercavo sentii qualche gemito e quel rumore che fanno i letti quando.... Forse quei due vecchi stavano... Stavano facendo l’amore? Non sapevo che ore fossero, e quando tornai a letto continuai a sentire un mormorio lontano, come di parole sparse, quasi stessero commentando com’era andata. Misi la testa sotto il cuscino, vergognandomi un po’ di averli sentiti senza volerlo.

Il mattino dopo non mi stupii che si alzassero alle dieci. In un primo momento, quando mi svegliai, pensai di essere io quella pigra, perché non si sentiva anima viva, ma vedendo che il cancello d’ingresso era chiuso con il catenaccio dedussi che stavano ancora dormendo. Tirai le tende del salone e aprii la porta: era una giornata stupenda. Il sole illuminava l’aria e le foglie bagnate e gli uccelli cantavano a pieni polmoni.

Mi ero fatta un caffellatte e lo stavo sorseggiando in veranda quando Karin e Fred comparvero in cucina: lei era in camicia da notte mentre lui portava i pantaloncini e un’ampia polo con le maniche arrotolate. Erano contenti. Mi chiesero se avevo dormito bene, e Karin sembrava muoversi più agevolmente del giorno prima.

«Vado a preparare la colazione», disse Fred.

Non mi diede il tempo di dirgli che si era fatto un po’ tardi e che dovevo andare. Karin mi anticipò mettendo sulla tavola della veranda le tovagliette ricamate. E mentre lei si vestiva, Fred preparò una spremuta d’arancia e il solito tè. “D’accordo”, mi dissi, “appena finiamo me ne vado per continuare la mia lettura della vita di Ira a puntate.” Non che avessi grandi cose da fare, ma avevo l’impressione che rimanendo lì le stessi trascurando; avevo l’impressione che tutto quello che non stavo facendo fosse molto importante.

I norvegesi erano molto arzilli, parlavano delle serie televisive che vedevano, mi raccontavano interi episodi. Io parlavo di qualsiasi cosa mi passasse per la testa ma all’improvviso, mentre chiacchieravo, li sorpresi a guardarmi in modo terribilmente serio, come se volessero saltarmi addosso e divorarmi. Che mi fosse sfuggita qualche sciocchezza senza che me ne rendessi conto? Fu questione di mezzo secondo, poi si guardarono nello stesso modo di sempre e un attimo dopo tutto tornò alla normalità. Le loro facce si rasserenarono. Doveva essersi trattato di uno di quegli abbagli di cui non ci si accorge neppure.

Quando ci alzammo, Karin mi propose di mettere le sdraio al sole. Ormai ero in ballo, pensai, non mi restava che ballare: in fin dei conti cosa c’era di male ad aspettare un altro po’ e riposare un attimo prima di andare a prendere il motorino?

Io e Karin ci sdraiammo con la faccia rivolta verso il sole e chiudemmo gli occhi. Non pensavo che mi sarei addormentata di nuovo, pensavo semplicemente a quanto erano comode le sdraio e che mia sorella avrebbe potuto comprarne un paio così e buttare quelle che aveva, su cui non si riusciva a stare più di mezz’ora.

Per essere così anziano, Fred non si stancava mai. Sparecchiò e lavò i piatti, poi si rinchiuse a lavorare da qualche parte e, più o meno alle quattro, dopo aver preparato un tè con pasticcini che assaggiai solo io, andò a fare la spesa al centro commerciale, visto che a quanto pareva ci eravamo mangiati tutto quello che c’era in frigorifero. Pensai che avrebbe potuto accompagnarmi fino al motorino, ma quando decisi di muovermi lui era già uscito dal garage. Tornammo alle nostre sedie a sdraio. L’artrosi di Karin era molto migliorata: aveva persino le dita più dritte e riusciva ad alzarsi dalla sedia con una certa agilità. Ritornò con il gomitolo di lana, i ferri e un altro gomitolo e altri ferri per me.

«Se ti va puoi fare il bagno», disse. «Non importa se non hai il bikini, qui non ti vedrà nessuno.»

L’acqua era fredda, nonostante il sole: non era più stagione da bagni in piscina. Però mi fece bene, mi svegliò e potei prendere il sole praticamente nuda, approfittando dell’assenza di Fred. Quando calcolai che doveva essere sulla strada del ritorno, mi rivestii e presi i ferri. Karin mi insegnò a fare i punti. Era bello andare avanti e far allungare la maglia di quello che sarebbe diventato un golfino giallo, anche se i punti non mi venivano regolari. Pensai che potevo alternare riviste, golfino, passeggiate e pasti, e che in quel modo la mia vita sarebbe stata piena.

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